“Ora ammazzo te e sgozzo tua figlia”, l’intervista ad una donna che vive sotto protezione

“Ora ammazzo te e sgozzo tua figlia”, l’intervista ad una donna che vive sotto protezione

 

 

La mano le afferra i capelli. Salda e malvagia. La trascina per tutta la casa, incurante della gravidanza, al settimo mese. Serena (nome di protezione) non sa se fanno più male i calci nella schiena o l’indifferenza per la loro figlia, che ancora deve nascere. A distanza di anni, le botte sono archiviate. Le altre ferite no.

«Lo sguardo assente di mia figlia, che finge di giocare mentre il padre mi picchia». Per quello non c’è sollievo. Non la condanna , appellata, in primo grado, a 20 mesi dell’ex compagno. «In fondo spero che non la sconti mai. Altrimenti quando esce di prigione mi ammazza. E io sarò solo un’altra donna sulle cronache». Un numero in più delle statistichedel femminicidio.

Non è rassegnata Serena. E’ solo concreta. A 32 anni ha imparato a esserlo. Prima per sopravvivere 7 anni con il suo aguzzino, proteggendo i loro due figli. Poi per scappare e trovare protezione in una casa rifugio in Toscana, nella provincia di Pistoia, gestita dall’associazione “365 giorni al femminile”. Ricominciare a vivere non è stato difficile per una donna che non si è lasciata piegare. Dimenticare, invece, è un’altra faccenda.

«Togliti la minigonna». Quando Serena incontra il suo aguzzino si Innamora. Entrambi sono giovani, lui è un imprenditore in vista. Ma il corteggiamento “già dall’inizio è viziato da episodi di violenza. Solo che io – ammette Serena – non me ne accorgevo.

Anzi srambiavo per amore certi suoi attacchi di gelosia. Come quando mi diceva “Togliti la minigonna e mettiti i pantaloni”. O mi dava uno schiaffo perché un ragazzo mi aveva salutato per strada. Allora mi aggrediva: “Chi è quello? Che cosa mi nascondi?”. Poi, si pentiva e mi mandava i fiori, si scusava».

«se lavori, niente famigliai!». All’inizio della relazione, Serena lavora. Barista, operaia, cameriera, aiuto cuoca, cassiera. Vuole essere indipendente. «Poi, però – racconta – lui mi convince a lasciare tutto. Mi dice: “Sei sempre al lavoro. Non abbiamo mai tempo per noi. Non riusciamo a costruire la nostra famiglia”. Cosi sono rimasta a casa». E’ il primo passo verso l’isolamento. «Dopo c’è sialo ralionlanamento dai miei affetti: la famìglia, le mie amiche che per lui erano tutte poco di buono. Potevo uscire solo accompagnata dai suoi parenti, dalle sue sorelle. Per la spesa, nei negozi io sceglievo, lui pagava. E, se per caso, mi lasciava andare con un suo familiare, pretendeva il resto dei soldi che mi aveva dato».

Botte e ferri da stiro. Alla violenza psicologica si aggiunge quella fisica. «Di solito – mi picchiava in modo da non lasciare segni. Il suo punto preferito era la testa.

Ho vari referti di trauma cranico, che mi sarei per lo più procurata da sola, per il pronto soccorso: ma come facevo a denunciarlo se era sempre u accanto a me?

Mi colpiva più volentieri all’altezza della nuca, perché mi faceva perdere i sensi. E quando rinvenivo ricominciava. Di preferenza, usava pugni e calci, ma una volta mi ha anche tirato un ferro da stiro».

Cinque minacce di aborto. Nonostante l’inferno casalingo, Serena resta incinta una seconda volta. «Durante la gravidanza – ricorda – sono finita in ospedale varie volte con dolori addominali. Una volta al pronto soccorso ho detto di essere caduta sul lavabo, ma mi ci aveva sbattuta lui. Ho avuto cinque minacce d’aborto, ma alla fine mio figlio è nato. E oggi, con mia figlia, è la mia ragione di vita».

«Scusatela è un’autolesionista». L’episodio più grave, con i bimbi già nati, è scatenato da un episodio di gelosia retroattiva. «Un giorno – rammenta Serena – mi rivolge una domanda sul mio

passato. Sento il tono e inizio a tremare. Lui stava scrivendo su Facebook. All’improvviso afferra un cavo del computer, lungo, me lo avvolge attorno al collo e stringe. Mi è mancata l’aria e sono svenuta». Quando riprende conoscenza, Serena sente il compagno ripetere: «Tu devi morire». E’ disperata. «Di quel momento – ammette – ricordo solo qualcuno che mi fa la respirazione bocca a bocca, Lui che mi minaccia, io che per dormire prendo delle gocce con un cucchiaio. Forse troppe. Così la mattina dopo, mi porta in ospedale per un overdose di farmaci. Io provo a spiegare che avevo bisogno di dormire, ma quando al pronto soccorso vedono i segni attorno al collo, lui dice che me li sono procurali da sola perché sono un’autolesionista». Lo psicologo dell’ospedale crede a questa tesi: «Io per paura non I’ho smentita e lo specialista mi spiega che se di nuovo abuserò di farmaci avvertirà i servizi sociali e mi porteranno via i figli».

«Mamma è andato?». Intanto i pestaggi si ripetono davanti ai bimbi. «Se c’è un’immagine che non va via – dice Serena – è lo sguardo di mia figlia mentre il padre mi picchia. Il piccolo non ricorda perché era troppo piccolo, ma lei aveva già 4 anni». Come il padre si avvicina alla mamma, gli occhi della bimba diventano fissi. «Lei si alzava, andava a giocare in camera, fingendo che non stesse succedendo nulla. Quando tutto era finito, io andavo da lei. Mi chiedeva soltanto: “E’ andato?”. Io le rispondevo: “E’ andato”. Allora respirava».

«Poverino è malato». Gli ultimi giorni di convivenza, botte e minacce con i coltelli avvengono presenti i suoceri. «Davanti alla madre mi urlava: “Ti ammazzo puttana”, ma tutti mi dicevano: “Poverino, non vedi che è malato? Non rovinare la famiglia. Se lo denunci ti portano via i figli».

«Sgozzo anche tua figlia». A dare a Serena la forza di ribellarsi, sono le minacce ai figli. «Le botte potevo sopportarle, ma aveva cominciato a dire che me li avrebbe portati via e non me li avrebbe più fatti trovare. Un’altra volta mi disse: “lo sgozzo tua figlia”. Sono sicura che lo avrebbe fatto. Un giorno le si avvicinò e le puntò alla tempia una pistola fatta con le dita: “Se te ne vai con tua madre, ri sparo e poi ti taglio la gola”. Qualche tempo dopo, quando eravamo già nella casa rifugio, la bimba ha raccontato l’episodio allo psicologo: “Mio papà mi voleva sparare nei cervello e tagliare la gola”».

La fuga. La mattina del 3 marzo di qualche anno fa. Serena prende i figli e il coraggio ed esce di casa. Senza soldi e con in tasca il volantino di un centro anti-violenza (preso di nascosto al pronto soccorso) si presenza alla caserma dei carabinieri. In 14 pagine denuncia 7 anni di violenze. Chiede aiuto e protezione. La sera stessa è in partenza per la Toscana. «Ma io so che non è finita. Mi considera un suo oggetto. E non accetta la ribellione». Parole concrete, non rassegnate. Di chi si sente protetta, ma non sicura. Non in un paese dove un compagno ti può pestare per anni, vedersi sospendere la patria potestà ma circolare libero in cerca della sua vittima.

 

Scarseggiano i fondi, a rischio gli alloggi sicuri

A rischio le case rifugio per donne maltrattate. A lanciare l’allarme è Giovanna Sottosanti, presidente dell’associazione no profit “365giornialfemminile” che gestisce uno dei 6 centri con abitazioni sicure (e indirizzi ignoti) per donne perseguitate da mariti, compagni o familiari violenti. A fronte di una domanda crescente di aiuto da parte delle donne maltrattate, infatti, diminuiscono I fondi pubblici stanziati. Eppure anche inToscana nel 2010, i 12 centri anti-violenza della rete Tosca hanno accolto 1933 donne, ricevendo 1574 nuove richieste di aiuto; nello stesso anno, nelle case rifugio toscane, sono state ospitate 58 donne con 75 minori. «A parole – esordisce Giovanna Sottosanti – sono tutti a favore dei centri anti-violenza e delle case rifugio, luoghi dove le donne iniziano a ricostruire la propria vita. Ma quando si tratta di trovare le risorse, la disponibilità viene meno. Basta vedere i tagli operati sul sociale, a cominciare dallo Stato. Ma per assicurare una vita dignitosa a una donna In una casa rifugio occorrono da 3000 a 3500 euro al mese. Più le spese per eventuali figli. Le donne che arrivano a noi, su segnalazione dei servizi sociali, non hanno niente. Sono fuggite di casa, dai maltrattamenti, solo coni vestiti che indossano». Le associazioni – prosegue Giovanna Sottosanti – forniscono una casa sicura «per la quale pagano affitto e bollette,: offriamo, inoltre, una cifra settimanale per la spesa e gli acquisti. Poi ci sono te spese per l’assistenza psicologica, per la scuoia del figli. Il vestiario e cosi via.». Ha se gli enti non garantiscono più le rette, le associazioni saranno costretti a chiudere le case. E a lasciare le donnesenza protezione.

 

Alla messa in minigonna e tacchi alti

Domani alla funzione nel duomo di Carrara, la risposta “rosa” al prete dello scandalo di Lerici

Minigonne. Tacchi alti. Scollature generose sul decoltè e trucco delle grandi occasioni.

Non è il look per la notte di Capodanno, ma quello con cui alcune donne di Carrara si presenteranno in Duomo alla messa della domenica. È questa l’iniziativa annunciata su Facebook che ha già riscosso diverse adesioni a Carrara e non solo. Un appello a “vestirsi femminili per andare in chiesa” per manifestare il proprio netto dissenso alle parole di don Piero Corsi, parroco di San Terenzo, rimosso temporaneamente dall’incarico dopo aver affisso manifesti che attribuivano all’abbigliamento e all’atteggiamento delle donne una responsabilità della piaga del femminicidio. «Vogliamo esprimere così il nostro dissenso – afferma la promotrice dell ‘iniziativa Alessandra Verdini – e ci presenteremo in chiesa come ci vestiamo tutti i giorni, esaltando la nostra femminilità». Alessandra Verdini, carrarese, laureata in storia dell’arte con specializzazione in antropologia culturale, è operatrice nel centro antiviolenza di Pisa “Casa della donna”, ed è collaboratrice al dipartimento di Storia dell’Università di Pisa con il professor Fabio Dei. La location della protesta – ovvero la seguitissima messa domenicale delle 10,30 in Duomo – è stata scelta proprio dopo il periodo di riposo che si è preso il sacerdote di San Terenzo: «Altrimenti avremmo svolto questa iniziativa nella sua chiesa e questo faremo se, quando e dove il parroco tornerà a celebrare la messa». Intanto il primo banco di prova sarà il Duomo e la messa officiata da don Raffaello Piagentini che, informato dell’iniziativa risponde così: «Per prima cosa io non sono d’accordo con don Corsi, ma sono d’accordissimo con il vescovo di Spezia che ne ha preso le distanze. La violenza non è mai giustificata, soprattutto di un uomo nei confronti di una donna. E Cristo, dobbiamo tenerlo bene a mente, era il primo amico delle donne, ha dato loro dignità». «Vogliono venire in chiesa in minigonna? – aggiunge – Mica le manderò via! Però mi sembra un po’ una bischerata. Forse sarebbe stato meglio organizzare un momento di confronto culturale su quanto è accaduto. Ecco non credo che sia la minigonna e il trucco il modo per contrastare un’idea ».

 

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